mercoledì 18 agosto 2010

Il Lavoro in Italia

  • L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. (art.1)
  • La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. (art.4)
La nostra "Carta" ci informa che abbiamo il diritto-dovere di lavorare e che la Repubblica ci garantisce questo diritto. Uau.
Ovviamente però sono tutte balle: la Costituzione, per quel che vale, può pure sostenere che il Sole ruoti attorno alla Terra e che la materia sia composta di soli quattro elementi (acqua, aria, fuoco e terra, così facciamo contenti pure i cazzoni new-age), ma questa affermazione non renderebbe tali vaccate meno false.
Allo stesso modo per il "diritto al lavoro": possiamo pure ammantarci di comunistissima presunzione ed enunciarlo come un grande progresso dell'umanità, ma la realtà è che il diritto al lavoro non c'è e non può esistere.

Esiste però il diritto del lavoro che è ciò di cui mi occuperò in questo post.
I soggetti che hanno contribuito ad arrivare al diritto del lavoro che c'è oggi sono molti, ma i principali sono i sindacati e la sinistra, poiché da sempre queste due entità (ben definiti i sindacati, più vacua ed etera la cosiddetta "sinistra" politica) si sono fatte portavoce dei problemi del mondo del lavoro.

Una prima considerazione: nel 1996 il mercato del lavoro era ingessato e le nostre imprese stavano perdendo di competitività sui mercati internazionali.
Vi ricorda qualcosa? Sono passati 14 anni ed i problemi sono rimasti gli stessi, sebbene la situazione sia comunque cambiata: per ridare ossigeno ad un mercato del lavoro asfittico, il governo di allora (Prodi I) aveva davanti due opzioni.

La prima, ridiscutere l'intero sistema di relazioni lavorative.
Si tratta(va) ovviamente di un progetto ambizioso, come tale ovviamente da scartare a priori in un paese come il nostro.
Un contratto di lavoro è per prima cosa un contratto, cioè un accordo tra privati. Ciononostante non è disciplinato dal diritto privato perché il legislatore, riconoscendo la funzione sociale del lavoro, è intervenuto pesantemente per regolarlo.
Se le intenzioni erano sacrosante (limite all'orario di lavoro, obbligo di misure di sicurezza, ecc) alcuni sviluppi di questa regolamentazione (legge 300 del 1970) sono stati oggettivamente eccessivi [1]: mi riferisco in particolare alla virtuale non-licenziabilità del lavoratore anche qualora il suo comportamento o rendimento sul lavoro fosse mediocre. Certo, si può licenziare per "giusta causa" o per "giustificato motivo soggettivo", ma come tutti sanno percorrere questa strada è quasi impossibile visti i tre gradi di giudizio e l'attivismo dei sindacati sempre pronti a difendere anche l'indifendibile. Di fatto, quando una grande ditta con più di 15 dipendenti assume a tempo indeterminato qualcuno, di fatto se lo sposa senza la possibilità di poter mai più divorziare.
E' una "tutela totale" con obbligo di reintegro per il dipendente licenziato: non ha pari in tutto il mondo occidentale (con la possibile eccezione della Francia, dove però i provvedimenti disciplinari contro i lavoratori sono ben più severi che da noi) ed i sindacati che vevano spinto per ottenerla ribattezzarono impropriamente la legge 300 del 1970 "Statuto dei Lavoratori", come se fosse una costituzione a parte superiore alle leggi ordinarie.
Ovviamente, dopo 35 anni di questa legge e quasi 30 di alternanti crisi economiche che hanno messo fine al "miracolo italiano" del dopoguerra, un simile sistema mostrava tutte le sue mancanze. Andava ridiscusso, e l'allora ministro Tiziano Treu aveva tutta l'intenzione di farlo.
L'unico problema, era che la controparte del governo non aveva la minima intenzione di stare a discutere: lo "Statuto" non si poteva toccare. Come sempre la triade sindacale italiana si dimostra aperta al nuovo ed immersa nella modernità.

Ecco quindi la seconda soluzione possibile (quella che si è poi attuata): svuotare lo "Statuto" di ogni significato per chi entra nel mondo del lavoro, ma lasciando in piedi tutte le garanzie per chi c'è già dentro.
I sindacati amano definirsi "rappresentanti dei lavoratori" ma a parte questa becera retorica di stampo leninista, sono di fatto solo e soltanto rappresentanti dei loro iscritti: accettarono quindi di buon grado la legge 196 del 1997 perché non avrebbe toccato i propri iscritti ma sarebbe andata a gravare solo sulle "nuove leve".
Nuove leve che non avrebbero avuto le tutele dello "Statuto" ma che, non essendo protette e rappresentate da nessuno, potevano ben essere caricate di tutti i guai causati da chi li aveva preceduti.
E così estato: la legge Treu inventa nuove tipologie di lavoro precario (es: interinale), ma soprattutto amplia la figura del parasubordinato per eccellenza (che prima era relegata solo ad alcuni ristretti ambiti), il collaboratore coordinato e continuativo, al secolo il co.co.co.
Il co.co.co. di Treu fa esattamente quel che faceva prima un lavoratore tutelato dallo "Statuto" ma senza alcuna delle precedenti garanzie:
se si ammala non viene pagato;
se va in maternità non viene pagato;
se va in ferie non viene pagato;
può essere licenziato in ogni momento e non c'è per lui nè cassa integrazione nè mobilità (gli "ammortizzatori sociali");
non ha diritto al TFR ed alle aziende costa un terzo in meno in termini di contributi pensione (il che significa che vedrà anche un terzo in meno di pensione, quando sarà vecchio). 
L'uovo di Colombo!
La disciplina del co.co.co. è stata leggermente modificata dalla cosiddetta "Legge Biagi" (legge 276 del 2003) che dà qualche minima tutela in più e chiarifica meglio il ruolo del collaboratore che diventa "collaboratore a progetto" (per gli amici co.co.pro.): il co.co.pro. deve avere un progetto ed è libero dal vincolo di subordinazione, cioè può realizzare il progetto a modo suo senza essere "eterodiretto" (cioè senza che un capo gli dica come deve fare per filo e per segno, basta ottenere gli obiettivi prefissati).
Sulla carta sarebbe tutto fantastico se non che nei fatti il progetto non c'è quasi mai ed il co.co.pro. è trattato come un dipendente ed assogettato agli stessi controlli ed agli stessi orari dei lavoratori subordinati, che però a differenza di lui sono protetti dal licenziamento ed hanno diritto a ferie, malattia, maternità.

Come si capisce al co.co.co. ed al co.co.pro. l'intero "Statuto dei Lavoratori" diventa inapplicabile: in quanto "collaboratori" non sono dei dipendenti veri e propri bensì sono accomunati ai lavoratori autonomi e di fatto privi di tutele.
Cornuti e mazziati, in un certo senso: tutti gli oneri del lavoratore autonomo e tutti gli oneri del lavoratore subordinato.
I sindacati cosa hanno fatto per opporvisi? Nulla, ovviamente. Questi sono contratti per "gente non sindacalizzata", per "giovani", e come tali assolutamente insignificanti per le solite CGIL, CISL e UIL.
Non a caso, l'ultima grande mobilitazione sindacale, voluta da Cofferati della CGIL nel 2002, non è stata affatto contro il precariato che già c'era, bensì per preservare l'articolo 18 dello "Statuto" (quello che garantisce la non licenziabilità) per chi ha il posto fisso.
Allo stesso modo la sinistra politica: clamoroso il caso della raccolta di firme per un referendum che vuole estendere la non licenziabilità anche ai dipendenti di ditte con meno di 15 persone [2], ma che nulla vuole dare a chi vive di precariato senza tutele.

Questa situazione nel tempo ha avuto alcuni interessanti sviluppi [3], ma si possono già trarre le naturali conclusioni:
  1. Chi entra nel mercato del lavoro oggi troverà solo precariato, scontando così le colpe di chi lo ha precedeuto.
  2. Il sindacato ha premuto per trasformare i privilegi in diritti: la non-licenziabilità ha creato problemi alle aziende che adesso ricorrono ad altre tipologie di assunzione prive di alcuna tutela.
  3. Ma un privilegio si differenzia da un vero diritto per la sua durata: un vero diritto ha una sua portata universale e si può ragionevolmente sperare di poterne godere anche tra un secolo.
    Il privilegio ha il "fiato corto" perché trae la sua forza dalla potenza della corporazione che ottiene tale privilegio, e finisce coi membri di tale corporazione.
    Un privilegio, ad esempio, è che i bianchi quando salgono sull'autobus facciano alzare i negri che cedono loro il posto.
  4. Siamo quindi passati da un situazione iper-tutelata (per i vecchi, per chi è già "dentro" il sistema del lavoro) ad una completamente de-regolata (per i giovani che entrano ora).
  5. Il sindacato non ha scopi ecumenici o universalisti [4], bensì di tutela dei suoi iscritti.
    Il sindacato protegge come una corporazione gli individui che hanno la tessera del sindacato, non è interessato a difendere i lavoratori in quanto tali, ma solo i lavoratori sindacalizzati.
  6. Vie alternative che comportassero una ridiscussione globale delle garanzie di tutti sono state evitate per non scontentare i sindacati da parte di tutti i governi dal 1996 ad oggi.
    Che lo abbia fatto Tiziano Treu in un governo appoggiato dai comunisti è in un certo senso comprensibile, che anche i governi Berlusconi (che tanto sbandiera una presunta "rivoluzione liberale") abbiano seguito la stessa rotta è un affronto alla politica. Ha fatto più liberalizzazioni Bersani in due anni (governo Prodi II, 2006-2008) che Berlusconi in nove.
  7. Tutte questa "flessibilità" che è stata immessa nel mercato del lavoro non ha salvato l'Italia da 13 anni di stagnazione economica.
    Il mercato del lavoro è flessibile in ingresso ma sconta ancora il peso dei lavoratori con contratto "a vita".

E quindi? La nostra sinistra è il male incarnato ed i sindacalisti gli araldi delle tenebre? Sì, ma non è solo questo. Magari fosse solo questo.
La cosa peggiore, forse, è la realtà del nostro sistema produttivo fatto di piccole e medie aziende che sono sempre più incapaci di garantire lavoro e profitti.
Solo una grande azienda come FIAT ha la forza di andare dai sindacati, prenderli per la collottola e dire loro: "belli miei, o mi garantite che i vostri lavoratori lavorino davvero e producano x vetture nel tempo y, oppure vi lascio in pasto ai vermi".
Ma di FIAT ce n'è una sola ed a meno che questa nuova ottica basata sulla produttività non riesca a fare breccia nel mondo del lavoro italiano, dobbiamo aspettarci il solito pericoloso "inciucio" di connivenze tra sindacalismo ed imprenditoria che penalizza la competitività italiana nel mondo. La strada seguita da decenni a questa parte, con il mantenimento della "pace sociale" ad ogni costo, ha solo generato mostri come il precariato, il lavoro nero e la disoccupazione permanente per centinaia di migliaia di persone [5].
Le nostre PMI non solo non hanno la forza di imporre concorrenza e produttività, ma stanno anche perdendo le opportunità della globalizzazione e dell'ascesa di nuove potenze economiche come i BRIC (Brasile+Russia+India+Cina).
Ed anche se in Italia il mercato è viziato da connivenze e sotterfugi, a livello internazionale si vede sempre più come l'Italia sia destinata (a meno di un improbabile e drastico cambio di rotta) ad una marginalizzazione sempre maggiore.




[1] Ne è dimostrazione il fatto che vincoli come la "durata eterna" del rapporto di lavoro sono stati aboliti quando sono state create le figure di "lavoro flessibile", ovverosia precario.

[2] L'art.18 della legge 300/1970 garantisce il reintegro al lavoro per chi viene licenziato in aziende con più di 15 dipendenti e garantisce un rimborso per chi viene licenziato in ditte più piccole. Tutte le latre tutele previste dalla legge 300/1970 sono uguali per tutti i lavoratori subordinati.

[3] In particolare, il diffondersi del cosiddetto "stàge": non un rapporto di lavoro ma un tirocinio.
Può essere pagato o meno, non dà alcuna tutela e può essere interrotto da ambo le parti in ogni momento.
Era stato pensato come prima tappa per imparare un mestiere, è diventato nella pratica un modo per avere a disposizione dipendenti gratuitamente o per rimborsi spese minimi (in genere da 0 a 500 € il mese). 
Si tratta della naturale evoluzione del co.co.pro.: come quest'ultimo è in realtà un lavoratore subordinato inquadrato come lavoratore autonomo, così lo stagista è un lavoratore subordinato inquadrato come non-lavoratore.

[4] Questo lo si vede anche quando una azienda come Fiat vuole delocalizzare la produzione in Serbia o in Polonia: il sindacato italiano protegge i suoi iscritti italiani, non è minimamente interessato al fatto che per i lavoratori serbi e polacchi un lavoro in Fiat possa rappresentare una grande occasione di crescita.
Questo in barba a tutta la retorica sindacale di matrice marxista: il sindacato oggi è forse una delle associazioni più razziste che esistano in Italia, e non deve quindi affatto sorprendere che gli elettori della Lega Nord abbiano in tasca la tessera della CGIL. 

[5] Curioso come la "pace sociale" sia un concetto totalmente estraneo al marxismo e più tipico delle politiche sociali della Chiesa Cattolica: per Marx i mutamenti dei rapporti di forza economici generano sempre dei conflitti sociali, anche violenti, e chi ha letto il Manifesto o il Capitale non potrà che rimanere sbalordito nel sentire con quanto ardore il filosofo di Treviri esalta i successi e lo spirito dinamico della borghesia imprenditoriale.
Tutto questo manca completamente al nostro sindacato, arroccato com'è nella difesa reazionaria dei privilegi dei vecchi e nella nostra sinistra che mira al mantenimento di uno status quo sempre più insostenibile.



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