giovedì 19 agosto 2010

La strategia che conduce alla sconfitta: il declino della sesta potenza industriale

Per anni ci hanno bombardato in Tv con frasi del tipo "le PMI sono un punto di forza, sono più flessibili e fanno prodotti più di qualità" oppure "il made in Italy ci salverà, è un marchio rispettato nel mondo": tutte balle.
Le PMI mancano della possibilità di mettere in atto economie di scala e quindi sono sempre più deboli in un mercato globale: potevano sopravvivere quando il mondo consumista finiva a Trieste, ora sembrano dei dinosauri, come un artigiano con accanto il Walmart. Questo declino delle PMI si vede ad ogni livello, dai produttori di scarpe alle firme legali che stanno perdendosi il business di cause generato dall'impetuosa crescita economica in Cina (la Cina ha fame di cause legali, per lo più di diritto societario, ma l'Italia che ha tanti avvocati come Francia, UK e Germania messi assieme non riesce ad esportarli).

Ed anche il tanto sbandierato "valore aggiunto della nostra produzione" in larga parte è una balla: magari valeva venti anni fa quando si iniziò ad accusare i cinesi di "saper solo copiare" [1], oggi si sono presi il nostro "know how" e dalla loro hanno i numeri di 300 milioni di middle class e un mercato potenziale di dimensioni continentali.

Ci siamo illusi che la crescita economica dell'Asia significasse questo: "l'Asia produce, ma le teste pensanti restano occidentali".

Che è un po' come dire che l'asiatico è scemo mentre invece l'europeo/americano è furbo: ovviamente non è così, ed in Asia si sta ovviamente spostando anche la progettazione e la direzione strategica.
Del resto, non era credibile che lo sviluppo dell'Asia fosse diretto da milioni di occidentali con "competenze strategiche" ma privi di competenze tecniche: siamo come un esercito in rotta fatto solo di generali a quattro stelle e senza sottufficiali né soldati.

Questo ha un riscontro anche nelle scelte di studio dei ragazzi: per un ventennio (1990-2010) è sembrato che tutti si preparassero al solo scopo di diventare manager, dirigenti, alti funzionari e strateghi dell'economia [2].
Non c'è ovviamente modo di assorbire tutte queste mandrie di "grandi stateghi"; ed anche l'Asia che cresce non se ne fa di niente visto che, non essendo popolata dai bruti "buoni-solo-a-copiare" come i razzisti di casa nostra sostengono [3], ha a casa proprie le risorse umane per provvedere da sé alla gestione strategica del suo sviluppo economico.

Forse solo ora ci si sta un po' svegliando da questo sogno senza senso, ma c'è da chiedersi se forse non sia troppo tardi per larga parte delle nuove generazioni: questa è l'altra faccia del precariato di cui ho parlato nel precedente post.
Il preceriato ha scaricato sui giovani tutte le responsabilità delle generazioni precedenti, le PMI si sono illuse di poter mantenere il loro modello di business in un mondo che cambia radicalmente (il PIL cinese eguaglierà quello USA nel 2030 e per il 2050 lo doppierà!) ed i giovani si sono affidati alle false speranze di un sogno che non ha alcun contatto con la realtà.
Questo mentre in Asia la gente si dà da fare, si rimbocca le maniche, manda i propri figli in politecnici dalla selezione durissima (roba che da noi manco alla Normale) e vede il proprio tenore di vita salire di giorno in giorno.

Anni fa speravo in un declino morbido per questo paese.
Oggi mi pare che la caduta sarà brusca e dolorosa non solo per l'Italia (che, come sempre, è all'avanguardia quanto a degenerazioni dell'Occidente, Fascismo in primis) ma per tutta quella parte del mondo che va da Berlino a Los Angeles.


[1] La stessa pretesuosa accusa era stata mossi negli anni '50 e '60 già ai giapponesi, accusati di "saper solo copiare la tecnologia occidentale" (e tedesca in particolare): poi si è visto come è andata, con Toyota primo produttore di auto al mondo. La realtà è che quando uno ha tanto entusiasmo e voglia di fare, ma manca di competenze, deve pur partire da qualche parte ed i primi passi si fanno per imitazione. Poi, imparati i rudimenti, ci si metterà del proprio.
Questo è ciò che hanno fatto i Giapponesi e ciò che stanno facendo i cinesi.

[2] Come spiegare altrimenti il boom di corsi di laurea come Scienze Politiche? Hanno creato perfino una laurea in "relazioni internazionali e risoluzione di conflitti", il cui unico sbocco sensato ovviamente è una carriera diplomatica a dirimere importanti conflitti geopolitici. Uau. Peccato che ovviamente di posti del genere se ne liberino due ogni dieci anni e che i laureati in questa roba siano decine di migliaia l'anno.

[3] Il solito magico duo LegaNord+sindacati, uniti nella pratica dello "smerdo" del diverso da sé.

mercoledì 18 agosto 2010

Il Lavoro in Italia

  • L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. (art.1)
  • La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. (art.4)
La nostra "Carta" ci informa che abbiamo il diritto-dovere di lavorare e che la Repubblica ci garantisce questo diritto. Uau.
Ovviamente però sono tutte balle: la Costituzione, per quel che vale, può pure sostenere che il Sole ruoti attorno alla Terra e che la materia sia composta di soli quattro elementi (acqua, aria, fuoco e terra, così facciamo contenti pure i cazzoni new-age), ma questa affermazione non renderebbe tali vaccate meno false.
Allo stesso modo per il "diritto al lavoro": possiamo pure ammantarci di comunistissima presunzione ed enunciarlo come un grande progresso dell'umanità, ma la realtà è che il diritto al lavoro non c'è e non può esistere.

Esiste però il diritto del lavoro che è ciò di cui mi occuperò in questo post.
I soggetti che hanno contribuito ad arrivare al diritto del lavoro che c'è oggi sono molti, ma i principali sono i sindacati e la sinistra, poiché da sempre queste due entità (ben definiti i sindacati, più vacua ed etera la cosiddetta "sinistra" politica) si sono fatte portavoce dei problemi del mondo del lavoro.

Una prima considerazione: nel 1996 il mercato del lavoro era ingessato e le nostre imprese stavano perdendo di competitività sui mercati internazionali.
Vi ricorda qualcosa? Sono passati 14 anni ed i problemi sono rimasti gli stessi, sebbene la situazione sia comunque cambiata: per ridare ossigeno ad un mercato del lavoro asfittico, il governo di allora (Prodi I) aveva davanti due opzioni.

La prima, ridiscutere l'intero sistema di relazioni lavorative.
Si tratta(va) ovviamente di un progetto ambizioso, come tale ovviamente da scartare a priori in un paese come il nostro.
Un contratto di lavoro è per prima cosa un contratto, cioè un accordo tra privati. Ciononostante non è disciplinato dal diritto privato perché il legislatore, riconoscendo la funzione sociale del lavoro, è intervenuto pesantemente per regolarlo.
Se le intenzioni erano sacrosante (limite all'orario di lavoro, obbligo di misure di sicurezza, ecc) alcuni sviluppi di questa regolamentazione (legge 300 del 1970) sono stati oggettivamente eccessivi [1]: mi riferisco in particolare alla virtuale non-licenziabilità del lavoratore anche qualora il suo comportamento o rendimento sul lavoro fosse mediocre. Certo, si può licenziare per "giusta causa" o per "giustificato motivo soggettivo", ma come tutti sanno percorrere questa strada è quasi impossibile visti i tre gradi di giudizio e l'attivismo dei sindacati sempre pronti a difendere anche l'indifendibile. Di fatto, quando una grande ditta con più di 15 dipendenti assume a tempo indeterminato qualcuno, di fatto se lo sposa senza la possibilità di poter mai più divorziare.
E' una "tutela totale" con obbligo di reintegro per il dipendente licenziato: non ha pari in tutto il mondo occidentale (con la possibile eccezione della Francia, dove però i provvedimenti disciplinari contro i lavoratori sono ben più severi che da noi) ed i sindacati che vevano spinto per ottenerla ribattezzarono impropriamente la legge 300 del 1970 "Statuto dei Lavoratori", come se fosse una costituzione a parte superiore alle leggi ordinarie.
Ovviamente, dopo 35 anni di questa legge e quasi 30 di alternanti crisi economiche che hanno messo fine al "miracolo italiano" del dopoguerra, un simile sistema mostrava tutte le sue mancanze. Andava ridiscusso, e l'allora ministro Tiziano Treu aveva tutta l'intenzione di farlo.
L'unico problema, era che la controparte del governo non aveva la minima intenzione di stare a discutere: lo "Statuto" non si poteva toccare. Come sempre la triade sindacale italiana si dimostra aperta al nuovo ed immersa nella modernità.

Ecco quindi la seconda soluzione possibile (quella che si è poi attuata): svuotare lo "Statuto" di ogni significato per chi entra nel mondo del lavoro, ma lasciando in piedi tutte le garanzie per chi c'è già dentro.
I sindacati amano definirsi "rappresentanti dei lavoratori" ma a parte questa becera retorica di stampo leninista, sono di fatto solo e soltanto rappresentanti dei loro iscritti: accettarono quindi di buon grado la legge 196 del 1997 perché non avrebbe toccato i propri iscritti ma sarebbe andata a gravare solo sulle "nuove leve".
Nuove leve che non avrebbero avuto le tutele dello "Statuto" ma che, non essendo protette e rappresentate da nessuno, potevano ben essere caricate di tutti i guai causati da chi li aveva preceduti.
E così estato: la legge Treu inventa nuove tipologie di lavoro precario (es: interinale), ma soprattutto amplia la figura del parasubordinato per eccellenza (che prima era relegata solo ad alcuni ristretti ambiti), il collaboratore coordinato e continuativo, al secolo il co.co.co.
Il co.co.co. di Treu fa esattamente quel che faceva prima un lavoratore tutelato dallo "Statuto" ma senza alcuna delle precedenti garanzie:
se si ammala non viene pagato;
se va in maternità non viene pagato;
se va in ferie non viene pagato;
può essere licenziato in ogni momento e non c'è per lui nè cassa integrazione nè mobilità (gli "ammortizzatori sociali");
non ha diritto al TFR ed alle aziende costa un terzo in meno in termini di contributi pensione (il che significa che vedrà anche un terzo in meno di pensione, quando sarà vecchio). 
L'uovo di Colombo!
La disciplina del co.co.co. è stata leggermente modificata dalla cosiddetta "Legge Biagi" (legge 276 del 2003) che dà qualche minima tutela in più e chiarifica meglio il ruolo del collaboratore che diventa "collaboratore a progetto" (per gli amici co.co.pro.): il co.co.pro. deve avere un progetto ed è libero dal vincolo di subordinazione, cioè può realizzare il progetto a modo suo senza essere "eterodiretto" (cioè senza che un capo gli dica come deve fare per filo e per segno, basta ottenere gli obiettivi prefissati).
Sulla carta sarebbe tutto fantastico se non che nei fatti il progetto non c'è quasi mai ed il co.co.pro. è trattato come un dipendente ed assogettato agli stessi controlli ed agli stessi orari dei lavoratori subordinati, che però a differenza di lui sono protetti dal licenziamento ed hanno diritto a ferie, malattia, maternità.

Come si capisce al co.co.co. ed al co.co.pro. l'intero "Statuto dei Lavoratori" diventa inapplicabile: in quanto "collaboratori" non sono dei dipendenti veri e propri bensì sono accomunati ai lavoratori autonomi e di fatto privi di tutele.
Cornuti e mazziati, in un certo senso: tutti gli oneri del lavoratore autonomo e tutti gli oneri del lavoratore subordinato.
I sindacati cosa hanno fatto per opporvisi? Nulla, ovviamente. Questi sono contratti per "gente non sindacalizzata", per "giovani", e come tali assolutamente insignificanti per le solite CGIL, CISL e UIL.
Non a caso, l'ultima grande mobilitazione sindacale, voluta da Cofferati della CGIL nel 2002, non è stata affatto contro il precariato che già c'era, bensì per preservare l'articolo 18 dello "Statuto" (quello che garantisce la non licenziabilità) per chi ha il posto fisso.
Allo stesso modo la sinistra politica: clamoroso il caso della raccolta di firme per un referendum che vuole estendere la non licenziabilità anche ai dipendenti di ditte con meno di 15 persone [2], ma che nulla vuole dare a chi vive di precariato senza tutele.

Questa situazione nel tempo ha avuto alcuni interessanti sviluppi [3], ma si possono già trarre le naturali conclusioni:
  1. Chi entra nel mercato del lavoro oggi troverà solo precariato, scontando così le colpe di chi lo ha precedeuto.
  2. Il sindacato ha premuto per trasformare i privilegi in diritti: la non-licenziabilità ha creato problemi alle aziende che adesso ricorrono ad altre tipologie di assunzione prive di alcuna tutela.
  3. Ma un privilegio si differenzia da un vero diritto per la sua durata: un vero diritto ha una sua portata universale e si può ragionevolmente sperare di poterne godere anche tra un secolo.
    Il privilegio ha il "fiato corto" perché trae la sua forza dalla potenza della corporazione che ottiene tale privilegio, e finisce coi membri di tale corporazione.
    Un privilegio, ad esempio, è che i bianchi quando salgono sull'autobus facciano alzare i negri che cedono loro il posto.
  4. Siamo quindi passati da un situazione iper-tutelata (per i vecchi, per chi è già "dentro" il sistema del lavoro) ad una completamente de-regolata (per i giovani che entrano ora).
  5. Il sindacato non ha scopi ecumenici o universalisti [4], bensì di tutela dei suoi iscritti.
    Il sindacato protegge come una corporazione gli individui che hanno la tessera del sindacato, non è interessato a difendere i lavoratori in quanto tali, ma solo i lavoratori sindacalizzati.
  6. Vie alternative che comportassero una ridiscussione globale delle garanzie di tutti sono state evitate per non scontentare i sindacati da parte di tutti i governi dal 1996 ad oggi.
    Che lo abbia fatto Tiziano Treu in un governo appoggiato dai comunisti è in un certo senso comprensibile, che anche i governi Berlusconi (che tanto sbandiera una presunta "rivoluzione liberale") abbiano seguito la stessa rotta è un affronto alla politica. Ha fatto più liberalizzazioni Bersani in due anni (governo Prodi II, 2006-2008) che Berlusconi in nove.
  7. Tutte questa "flessibilità" che è stata immessa nel mercato del lavoro non ha salvato l'Italia da 13 anni di stagnazione economica.
    Il mercato del lavoro è flessibile in ingresso ma sconta ancora il peso dei lavoratori con contratto "a vita".

E quindi? La nostra sinistra è il male incarnato ed i sindacalisti gli araldi delle tenebre? Sì, ma non è solo questo. Magari fosse solo questo.
La cosa peggiore, forse, è la realtà del nostro sistema produttivo fatto di piccole e medie aziende che sono sempre più incapaci di garantire lavoro e profitti.
Solo una grande azienda come FIAT ha la forza di andare dai sindacati, prenderli per la collottola e dire loro: "belli miei, o mi garantite che i vostri lavoratori lavorino davvero e producano x vetture nel tempo y, oppure vi lascio in pasto ai vermi".
Ma di FIAT ce n'è una sola ed a meno che questa nuova ottica basata sulla produttività non riesca a fare breccia nel mondo del lavoro italiano, dobbiamo aspettarci il solito pericoloso "inciucio" di connivenze tra sindacalismo ed imprenditoria che penalizza la competitività italiana nel mondo. La strada seguita da decenni a questa parte, con il mantenimento della "pace sociale" ad ogni costo, ha solo generato mostri come il precariato, il lavoro nero e la disoccupazione permanente per centinaia di migliaia di persone [5].
Le nostre PMI non solo non hanno la forza di imporre concorrenza e produttività, ma stanno anche perdendo le opportunità della globalizzazione e dell'ascesa di nuove potenze economiche come i BRIC (Brasile+Russia+India+Cina).
Ed anche se in Italia il mercato è viziato da connivenze e sotterfugi, a livello internazionale si vede sempre più come l'Italia sia destinata (a meno di un improbabile e drastico cambio di rotta) ad una marginalizzazione sempre maggiore.




[1] Ne è dimostrazione il fatto che vincoli come la "durata eterna" del rapporto di lavoro sono stati aboliti quando sono state create le figure di "lavoro flessibile", ovverosia precario.

[2] L'art.18 della legge 300/1970 garantisce il reintegro al lavoro per chi viene licenziato in aziende con più di 15 dipendenti e garantisce un rimborso per chi viene licenziato in ditte più piccole. Tutte le latre tutele previste dalla legge 300/1970 sono uguali per tutti i lavoratori subordinati.

[3] In particolare, il diffondersi del cosiddetto "stàge": non un rapporto di lavoro ma un tirocinio.
Può essere pagato o meno, non dà alcuna tutela e può essere interrotto da ambo le parti in ogni momento.
Era stato pensato come prima tappa per imparare un mestiere, è diventato nella pratica un modo per avere a disposizione dipendenti gratuitamente o per rimborsi spese minimi (in genere da 0 a 500 € il mese). 
Si tratta della naturale evoluzione del co.co.pro.: come quest'ultimo è in realtà un lavoratore subordinato inquadrato come lavoratore autonomo, così lo stagista è un lavoratore subordinato inquadrato come non-lavoratore.

[4] Questo lo si vede anche quando una azienda come Fiat vuole delocalizzare la produzione in Serbia o in Polonia: il sindacato italiano protegge i suoi iscritti italiani, non è minimamente interessato al fatto che per i lavoratori serbi e polacchi un lavoro in Fiat possa rappresentare una grande occasione di crescita.
Questo in barba a tutta la retorica sindacale di matrice marxista: il sindacato oggi è forse una delle associazioni più razziste che esistano in Italia, e non deve quindi affatto sorprendere che gli elettori della Lega Nord abbiano in tasca la tessera della CGIL. 

[5] Curioso come la "pace sociale" sia un concetto totalmente estraneo al marxismo e più tipico delle politiche sociali della Chiesa Cattolica: per Marx i mutamenti dei rapporti di forza economici generano sempre dei conflitti sociali, anche violenti, e chi ha letto il Manifesto o il Capitale non potrà che rimanere sbalordito nel sentire con quanto ardore il filosofo di Treviri esalta i successi e lo spirito dinamico della borghesia imprenditoriale.
Tutto questo manca completamente al nostro sindacato, arroccato com'è nella difesa reazionaria dei privilegi dei vecchi e nella nostra sinistra che mira al mantenimento di uno status quo sempre più insostenibile.



lunedì 9 agosto 2010

Panebianco e la "democrazia plebiscitaria"

Angelo Panebianco in un editoriale sul Corriere della Sera (link) analizza lo scontro politico degli ultimi 20 anni come una lotta tra tre idee di democrazia:
  1. la "democrazia plebiscitaria" incarnata da Berlusconi sulla scia di De Gaulle;
  2. la "democrazia acefala" voluta dal centro-sinistra e dai custodi della "tradizione" (secondo Panebianco: intellettuali e magistratura);
  3. la "democrazia federalista" voluta dalla Lega.
Come sempre questi discorsi fumosi appaiono molto sensati fino a quando non ci si mette un attimo a pensare e si va a vedere se questi giudizi hanno davvero una corrispondenza con i fatti, che sono l'unica cosa che conta.
Hanno corrispondenza coi fatti?
A parer mio no, e vediamo perché.

Che Berlusconi avesse in mente un rafforzamento dei poteri dell'esecutivo è un falso: ne ha avute svariate occasioni, non ultima la famosa Bicamerale di D'Alema, e le ha volutamente fatte fallire tutte (perché in quel momento al governo non c'era lui).
La realtà è che Berlusconi non ha alcun interesse al presidenzialismo di per sé.
Di volta in volta ha cambiato opinione in modo da adattarsi al suo proprio successo elettorale: ad esempio, dalle elezioni che ha vinto nel 2008 fino ad oggi, con 100 onorevoli di maggioranza parlamentare, il tema del presidenzialismo è stato bandito. Perché questo? Ma è semplice: perché Berlusconi con una maggioranza parlamentare così schiacciante non ha più avuto bisogno di rafforzare l'esecutivo, cioè sé stesso.
Tutta l'azione di Berlusconi è volta a garantire potere per sé, non per la carica che rappresenta.
Quando il generale De Gaulle divenne Presidente di Francia volle rafforzare i propri poteri esecutivi davanti alla manifesta incapacità del sistema parlamentarista della Quarta Repubblica di risolvere la questione algerina. E lasciò la politica a metà del II mandato, nel '68, dopo una schiacciante investitura popolare (che Berlusconi, in Italia, non ha mai avuto).
Questo marca la differenza tra uno statista (che lascia una eredità politica alla sua nazione) ed un approfittatore (che prende quel che può lasciando il vuoto dopo di sé).

Altrettanto vacui mi sembrano le questioni sulla "democrazia federalista": la Lega Nord è stata al potere, finora, per grosso modo 10 anni, e quel che ha saputo partorire è giusto una legge sul federalismo fiscale, una legge ordinaria che qualunque futura legislatura potrà abrogare con una semplice votazione a maggioranza.
Decisamente poco per salvaguardare gli "interessi del Nord": la realtà è che la Lega Nord non ha alcun interesse nel federalismo vero e proprio, perché se venisse realizzato diventerebbe manifesto il vuoto di idee di quel partito.

Ed anche identificare il centro-sinistra con l'araldo della "democrazia acefala" è abbastanza discutibile: chi se non D'Alema era favorevole al premierato? E chi ha azzoppato quella riforma se non Berlusconi?

Il cantastorie Panebianco racconta una fantasia che diverge dalla realtà, come i fumetti di supereroi.

domenica 8 agosto 2010

La legge elettorale

Cosa si chiede ad una legge elettorale? Forse troppe cose...
  1. Si chiede di rispettare la volontà popolare, cioè di essere democratica.
    Così, se un partito prende il 51% dei voti, non può essere rappresentato (per dire) da solo il 30% degli eletti in Parlamento.
  2. Si chiede di garantire maggioranze stabili, in modo tale che se un partito ha il 49% dei voti e tutti gli altri magari non arrivano al 10%, quello col 49% possa governare in santa pace.
  3. Si chiede di ridurre la frammentazione politica, impedendo ad esempio che entrino in Parlamento partiti che hanno preso meno del 3% dei voti popolari.
Molto bene, chiariamo subito una cosa: una legge elettorale che soddisfi tutti e tre questi punti semplicemente non esiste. E non può esistere.
E' un problema che non ammette soluzione.
Ma può ammettere dei ragionevoli compromessi.

Analizziamo l'attuale legge elettorale, il cosiddetto "porcellum" voluto da Roberto Calderoli della Lega Nord nel 2005 poco prima delle elezioni che daranno una risicatissima maggioranza al governo Prodi II.
Il "porcellum" è una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza e soglia di sbarramento; vediamone le caratteristiche più aberranti:
  1. Nello specifico prevede che il cittadino voti per delle liste bloccate, pre-compilate dai partiti politici, senza poter esprimere la preferenza per alcun candidato.
  2. Ogni coalizione deve presentare il proprio candidato alla presidenza del Consiglio dei Ministri.
  3. C'è una soglia di sbarramento, fissata nel 2% per i partiti raggruppati in coalizioni e nel 4% per quelli che corrono da soli.
  4. Viene dato un "premio di maggioranza" alla coalizione o al partito di maggioranza relativa, che vede incrementare la propria presenza alla Camera fino al 55% dei seggi. Al Senato il premio di maggioranza è su base regionale.
 Cosa produce tutto questo? Analizziamo la legge in base ai tre punti elencati all'inizio:
  • Si rispetta la volontà popolare?
    La legge attuale dà il 55% dei seggi alla coalizione che ha la maggioranza relativa, ma questo significa che anche una coalizione che abbia solo il 20% dei consensi può ottenere un "bonus" del 35% dei seggi, a patto ovviamente che le altre coalizioni arrivino al massimo al 19%.
    Questo ovviamente altera completamente il voto degli italiani, perché viene dato un opremio di maggioranza potenzialmente enorme alla coalizione più grande ma comunque minoritaria.
    Quel che è peggio, non c'è nessuna logica nel fissare la soglia al 55%. Cosa ha di speciale questo numero? Perché non al 51%? O al 59%? O all'80? Qual è il criterio democratico dietro questo gioco di numeri?
    Ovviamente nessuno: il voto degli italiani viene alterato come fosse carta straccia, dando seggi "bonus" per cui i cittadini non hanno mai votato.

    La volontà popolare è quindi calpestata completamente [1] ed un paio di figure possono aiutare a sincerarsene.
    Il grafico qua sotto rappresenta un caso ipotetico con 11 partiti idenficiati dal colore, in base alla percentuale effettiva di voti ottenuti (totale=100).






    Cosa si vede? Abbiamo 2 partiti minori, il blu col 2% dei voti ed il giallo scuro col 3%, gli altri 9 partiti sono tutti molto vicini tra loro tra il 10 e l'11%.
    Ora, il partito blu ed il partito arancio si apparentano tra loro e formano una coalizione: insieme fanno il 12% dei voti che è più di ogni altro partito presente, visto che al massimo gli altri partiti arrivano singolarmente all'11%.
    Questa qua sotto è la Camera dei deputati che otteniamo:






    Insieme arancio+blu fanno la maggioranza relativa (12%) dei voti ma col premio di maggioranza si ripartiscono ben il 55% dei seggi.
    In particolare, il partito blu che era il più piccolo in termini di voti effettivi (appena il 2%) diventa il secondo partito alla Camera con più del 9% dei seggi.
    Il partito arancio, che non era il primo partito in termini di voto popolare (10%) diventa il primo in termini di seggi con più del 45% dei seggi, un premio di maggioranza che fa aumentare la sua consistenza numerica del 350%.
    Di contro, il partito giallo scuro col 3% dei voti non entra in Parlamento (ma aveva più voti del partito blu che è diventato il secondo, per numero di seggi) ed i partiti che avevano l'11% dei voti (il massimo, erano 5 a parimerito tra loro) prendono appena il 6% dei seggi nonostante avessero ottenuto più consensi popolari del partito arancio che però è il più rappresentato alla Camera.

    In tutto questo, viene da chiedersi: la volontà popolare è rispettata?

  • Ma almeno, le maggioranze sono stabili?
    Neppure. Lo si è visto con l'esperienza del centrosinistra, che non ha avuto la maggioranza al Senato se non per due seggi.
    Come mai si crea instabilità nonostante il generoso premio di maggioranza?
    Perché se alla Camera il premio di maggioranza è nazionale, al Senato è dato su base regionale. Il che vuol dire che al Senato una coalizione può prendere il "bonus" in Lombardia ed un'altra prenderlo in Emilia, arrivando alla fine ad un risultato medio per le 20 regioni italiane che può essere molto diverso da quello della Camera.
  • Ma la frammentazione politica viene ridotta?
    E' stata ridotta, ma non grazie alla legge elettorale quanto per la volontà politica di Veltroni e Berlusconi nel 2008.
    Il "porcellum" infatti prevede una soglia di sbarramento di appena il 2% per i partiti apparentati in coalizioni. Si tratta di una soglia davvero molto bassa, meno della metà di quella presente nella legge elettorale tedesca (si tratta anch'essa di un proporzionale, ma ovviamente senza l'assurdo "premio di maggioranza") che è del 5%.
    La frammentazione politica si è effettivamente ridotta ma unicamente perché nelle elezioni del 2008 i due partiti maggiori (PdL e PD) si sono rifiutati di stringere molte delle precedenti alleanze lasciando i partiti minori fuori dalle loro coalizioni.
    Questo è quel che è avvenuto per decisione politica di Veltroni e Berlusconi, ma già adesso si sente ormai parlare di mega-coalizioni di centro-sinistra che vadano dai democristiani di Casini fino al comunisti radical-chic di Vendola: in questa eventualità la frammentazione politica tornerebbe a condizionare tutto.
Quindi in sostanza la legge "porcellum" voluta da Calderoli e Berlusconi sostanzialmente fa acqua da tutte le parti, non soddisfa nessuna delle richieste che una società democratica fa al suo ordinamento.
Perché è stata scritta così, allora?
Per varie ragioni, alcune "tattiche" (cioè per scopi immediati) ed altre "strategiche" (cioè per finalità di lungo periodo).
Tra le finalità "tattiche" nel 2005 c'era la necessità, per Berlusconi, di azzoppare la "probabile" vittoria del centro-sinistra. In realtà questa vittoria non era affatto "probabile" (la coalizione di Prodi vinse alla Camera per meno di 30000 voti, ed al Senato perse nel voto popolare) e comunque era già azzoppata di suo, contro ogni previsione della vigilia.
Lo scopo strategico, invece, era quello di minare il Parlamento come supremo organo rappresentativo dello Stato: uno scopo in gran parte raggiunto. Infatti, un Parlamento in cui siedono non più degli eletti bensì della gente "nominata" dai partiti è quanto di meno rappresentativo possa esistere: l'autorità democratica dell'attuale Parlamento è dunque ai minimi termini.
Anche l'assurdo premio di maggioranza non fa che deformare quello che è il voto degli italiani.
Inoltre, parallelamente alla destrutturazione della rappresentatività del Parlamento, c'è un rafforzamento dell'autorità democratica del premier [2] attuato però per vie a-costituzionali [3].
Mi spiego meglio: il fatto che le coalizioni debbano indicare il loro "candidato premier" è sostanzialmente incostituzionale, poiché il Presidente del Consiglio non è votato dagli italiani bensì nominato dal Presidente della Repubblica. Presentarsi alle elezioni con dei candidati già scelti dalle segreterie dei partiti significa forzare la mano al Capo dello Stato.
Questo rientra alla perfezione nello schema berlusconiano: un parlamento fatto di nominati (e non più di eletti) che rispondono solo agli "ordini di scuderia" ed un premier  che di fatto è elettivo, che come tale ha una investitura democratica de facto maggiore del parlamento stesso.
Una simile creatura non si è mai vista in nessun paese occidentale, ovviamente.



[1] Gli italiani hanno votato solo due volte con leggi che prevedessero il "premio di maggioranza": la prima fu nel 1924 con la legge Acerbo, che diede una maggioranza parlamentare schiacciante al Partito Nazionale Fascista (in quanto partito di maggioranza relativa) che arrivò ad ottenere oltre il 66% dei seggi alla Camera. Si sa poi come è andata a finire.
La seconda fu nel 1953, quando la Democrazia Cristiana promulgò una legge che dava il 65% dei seggi al partito che raggiungeva la maggioranza assoluta (quindi 50% +1). Il premio non scattò mai perché nessun partito raggiunse detta soglia.
Ovviamente la legge Calderoli del 2005 è più simile alla legge Acerbo del '24 che a quest'ultima, in quanto anche con la legge Calderoli il premio di maggioranza (comunque più modesto che con la legge Acerbo) viene assegnato alla lista di maggioranza relativa, quand'anche questa maggioranza relativa sia in realtà in termini assoluti piuttosto modesta.


[2] Ci sarebbe anche da discutere sull'uso del termine "premier": in Italia, banalmente, un "Primo Ministro" di stampo britannico non esiste.
Generalmente al Primo Ministro nei regni del Commonwealth britannico sono dati dei poteri che il nostro "Presidente del Consiglio dei Ministri" non ha (ad esempio, non può far dimettere i ministri del suo stesso esecutivo, né chiedere al Capo dello Stato di tornare alle urne). Continuare a riferirsi a Berlusconi come "premier" è una forzatura linguistica cui ormai si è fatta l'abitudine ma che è costituzionalmente scorretta ed alla lunga genera incomprensioni.



[3] Berlusconi ed il suo avvocato Niccolò Ghedini parlano al riguardo di una fantomatica "costituzione materiale", cioè (secondo loro) una serie di abitudini politiche consolidate che sono assurte al rango di norme costituzionali vere e proprie.
Ovviamente questo è falso: in 16 anni di cosiddetta "seconda repubblica" non c'è stata alcuna convenzione politica che si sia consolidata, visto che gli "strappi istituzionali" sono all'ordine del giorno.
Inoltre, la via per inserire nell'ordinamento italiano delle vere norme di rango costituzionale è chiara, e questa via non ha mai portato a nessuna vera riforma in questi ultimi 16 anni (a parte le modfiche al Titolo V della Cost. nel 2001 ad opera dell'allora maggioranza di centro-sinistra).

    giovedì 5 agosto 2010

    I turisti della democrazia

    Nel dibattito parlamentare di ieri, riguardo la sfiducia al sottosegretario Cosentino, colpiscono le parole del capogruppo della Lega Nord alla Camera.

    Costui, in sostanza, sostiene che gli italiani hanno votato questo Governo, incarnato da Silvio Berlusconi, e che quindi l'unica alternativa a questo governo scelto dal corpo elettorale sia il ritorno immediato alle elezioni.

    Questo cosa dimostra? Semplice, che chi ha fatto quelle affermazioni è un mero "turista della democrazia", uno che delle regole dello stato di diritto non ha mai capiro niente e parla per il solo gusto di dare aria alla bocca.

    La Repubblica Italiana, infatti, è una repubblica parlamentare: che significa?
    Che in Italia io e voi non votiamo un Governo o un Presidente del Consiglio, no no. Noi votiamo per il Parlamento.
    Poi, una volta insediatosi, è il Parlamento a decidere se concedere o meno la fiducia ad un Governo.
    E se questa fiducia viene meno, il Parlamento può sempre concederla ad un nuovo e diverso Governo: insomma, il Parlamento è sovrano in quanto i suoi membri sono eletti direttamente dai cittadini (cui spetta la sovranità, ricordatelo).

    Il Governo non è sovrano perché i suoi membri sono scelti dal Presidente del Consiglio dei ministri il quale di per sé non ha alcun "mandato popolare" se non la fiducia del Parlamento.

    Negli USA, che sono una democrazia presidenziale, il capo dell'esecutivo (e capo dello stato) è scelto direttamente dai cittadini [1] e come tale ha davvero un "mandato popolare", e proprio per questo non può essere sfiduciato dal Congresso in quanto sia Presidente che Congresso hanno la stessa investitura popolare.

    In Francia, dopo quasi un secolo di parlamentarismo, il generale De Gaulle favorì la transizione verso un sistema più presidenzialista [2] in base al quale il Capo dello Stato (e non il capo del Governo) è eletto direttamente ed ha quindi una investitura popolare.

    In Italia, che ci piaccia o no, vige il parlamentarismo: la Lega o il PdL possono dire ciò che vogliono, ma costituzionalmente Berlusconi non ha alcun "mandato popolare" se non quello come parlamentare e la fiducia delle Camere.
    Si ama tanto cianciare di "costituzione materiale", ma chi lo fa dovrebbe ricordare che l'Italia ha una costituzione scritta proprio per evitare che delle modifiche all'assetto costituzionale avvengano tramite procedure facilitate: chi vuole cambiare la Costituzione si accomodi, servono i 2/3 dei voti in ogni camera oppure un referendum confermativo.
    Se non ce la fate a passare attraverso questo tenetevi la Costituzione che c'è senza blaterare di improbabili "costituzioni materiali".



    [1] In realtà il Presidente degli Stati Uniti viene eletto non direttamente bensì tramite un curioso "collegio elettorale" che riunisce dei "grandi elettori" a loro volta eletti stato per stato.
    Di fatto però in centinaia d'anni di democrazia americana i "grandi elettori" non hanno mai alterato l'esito delle elezioni con iniziative personaòli contrarie al mandato dato loro dai cittadini.

    [2] Il sistema francese attuale, nella "Quinta Repubblica", è "semipresidenziale" in quanto il Presidente della Repubblica è eletto direttamente ed ha alcune funzioni esecutive, oltre a poter sciogliere l'Assemblea Nazionale a suo piacimento.
    La gran parte delle funzioni esecutive però spettano al Governo vero e proprio ed a un Primo Ministro che ha bisogno della fiducia dell'Assemblea Nazionale per rimanere in carica.

    mercoledì 4 agosto 2010

    Islam e Eurabia: una prospettiva concreta?

    Risposta: No.
    Oriana Fallaci sbagliava nell'immaginare un'Europa del futuro popolata prevalentemente di arabi maomettani.
    A negare questa possibilità sono, banalmente, le statistiche: ok, la natalità dei maomettani è particolarmente elevata, ma non è sufficiente a scalzare la maggioranza indigena e nel tempo la natalità dei vari gruppi etnici va mediandosi.
    Ok, quindi non c'è nessun problema?
    Risposta: No, di problemi ce ne sono eccome, ma la sinistra radical-chic non ne vuole parlare, perché fa troppo poco politically correct (del resto, è prassi della sinistra negare l'esistenza di tutti i problemi che ideologicamente si desiderano negare). E vabbe', pace, vuol dire che dirò la mia su questo blog.

    Il problema, molto semplicemente, è quel che pensano i maomettani che arrivano qui da noi nella vecchia Europa, come agiscono e come intendono agire.

    Va fatta una premessa: l'Islam non è un blocco unico come la destra più intransigente afferma e vuol farci credere.
    Non è così nell'Iran sciita, non è così nell'Arabia Saudita dove il re finanzia le madrasse che spargono il germe salafita nel mondo, non è così neppure nella più variegata Indonesia.
    L'Islam, il pensiero che c'è dietro l'Islam non è una cosa unica ed è piuttosto un'entità complessa in divenire.
    Questo a maggior ragione qua in Occidente: un immigrato, per forza di cose, è una persona che ha preso atto che "da qualche altra parte" si sta meglio (o ci sono migliori opportunità, che sostanzialmente è la stessa cosa) che a casa sua, e si sposta di conseguenza inseguendo il gradiente di benessere; insomma, questo per dire che mediamente un migrante è comunque una persona che ha una visione un po' più strutturata della realtà.

    Quindi, chiarito che l'Islam non è una cosa sola, guardiamo quali sono le minacce che questa religione (e la cultura che essa si porta aappresso) rappresentano per l'Occidente e le nostre libertà.
    Non all'Occidente in quanto "terra cristiana" (cosa nei fatti non più vera, USA a parte) quanto piuttosto terra dove è possibile dire la propria senza essere per questo uccisi o torturati.
    Bene, va preso atto con molta correttezza che la shari'a, la legge islamica, rappresenta la tomba dei diritti e delle garanzie che sono tutelati in Occidente.
    Non c'è molto altro da dire: in base alla shari'a si possono lapidare le donne sposate adultere (con l'esplicito riferimento a fare loro del male colpendole con pietre non troppo pesanti da ucciderle sul colpo né troppo leggere da non farle soffrire), si possono uccidere i maomettani che cambiano religione o diventano atei e chi bestemmia il loro cosiddetto "dio". La shari'a prevede questo.
    Ma in che rapporto sta la shari'a con l'Islam?
    Possiamo trovare delle similitudini nel Cristianesimo? In realtà ben poche: il figlio del falegname di Nazareth, infatti, non ha lasciato ai suoi discepoli un rigido elenco di prescrizioni con relative punizioni. Con un paragone giurisprudenziale, potremmo dire che Gesù di Nazareth ha sostanzialmente lasciato un messaggio "programmatico": dice quali sono gli scopi astratti, non come raggiungerli caso per caso.
    Al contrario, la shari'a disciplina una larghissima parte della vita del musulmano che da essa non può prescindere a meno di allontanarsi dalla shari'a stessa. Laddove una gran parte del pensiero cristiano moderno si è concentrato sul messaggio di Gesù in sé e per sé, gran parte del pensiero islamico recente si interessa più a come applicare correttamente la shari'a piuttosto che perseguire un qualche nascosto progetto di Allah: Allah infatti nel pensiero islamico è per definizione "il più sapiente" e l'unico scopo del vero credente musulmano è adeguarsi alla sua volontà ed ai suoi precetti.

    Più che le mie parole può risultare illuminante sentire cosa dicono i maomettani stessi: andate su google.it, cercate la combinazione di parole forum e islamico e leggete che cosa si dicono tra loro. Fermatevi pure sul primo link, basta quello, e scrivono in italiano.
    E' illuminante: questa gente non potrà mai integrarsi in una società di tipo occidentale, non solo, ma la loro stessa presenza qui rappresenta una autentica minaccia alla nostra vita ed ai nostri diritti umani.
    Leggete: c'è quello che dice candidamente che l'unico vero stato islamico che desidera è l'Emirato dell'Afghanistan (cioè il regime dei taliban), quello che chiede come si fa a lapidare una persona e si sente rispondere che non deve porsi questi problemi ma solo eseguire il volore di Allah, quella che chiede se si può curare le unghie e le sopracciglia, quella che vorrebbe sposare un non musulmano e si sente negare il permesso, e così via.
    Questa è tutta gente "castrata": vite mutilate dalla religione, una religione forse accettata volontariamente o forse imposta da anni di consuetudini famigliari, ma che comunque dice in modo inderogabile cosa loro possono o non possono fare.
    Gente "castrata" che vuole castrare anche noi: leggete quando si lamentano che la shari'a in Italia non è ancora applicabile nella sua interezza, lapidazioni e mutilazioni incluse;
    quando sognano di poter imporre a noi non islamici la "dhimma", cioè una tassa per non essere uccisi in quanto miscredenti;
    quando dicono chiaramente che in un tribunale la parola di un miscredente non può valere come quella di un musulmano e che i miscredenti non possono avere incarichi di governo in una società islamica.

    Leggetevele queste cose, gustatevele: ce ne sono tante altre ancora, grottesche nella loro barbarie, che per motivi di spazio ovviamente non posso riportare.

    Questa gente è già qui tra noi: fanno i tassisti e i muratori oggi, faranno forse gli avvocati ed i professori domani?
    Chi lo sa. Quel che è certo è che questo pensiero, così organizzato, rappresenta una minaccia per noi già da oggi. Una democrazia si basa anche sull'accettazione da parte dei cittadini di una serie di regole di base: questa gente non riconosce affatto le regole del diritto occidentale, anzi, dice esplicitamente che non bisogna considerarle (emblematico il ragazzo che voleva diventare poliziotto e si sente rispondere dall'ulema che non può, perché in quanto poliziotto di uno stato non-islamico si troverebbe ad applicare una legge diversa dalla shari'a).

    Ed allora, cosa facciamo? Come facciamo a distinguere e discriminare gli islamici che la pensano così da quelli che sono disposti al compromesso e ad accettare perlomeno le regole di base della civiltà occidentale?
    Chi lo sa.
    Ma di certo non è negando il problema che il problema si risolve.
    Sarebbe forse una soluzione interessante far firmare a tutti coloro che vengono qua (e magari anche a coloro che qua ci sono nati), cristiani o islamici o di qualunque altro orientamento religioso, un semplice foglio in cui accettano la legge e la Costituzione italiana come supreme fonti del diritto nello stivale cui adeguarsi: chi accetta entra; chi inizia a dire che la shari'a è la legge suprema e che nulla può essere al di sopra di essa, lo rispediamo da dove viene a suon di calci nel sedere.

    L'Eurabia non è alla porte, ma il fatto che il cancro non sia maligno non significa che si debba convivere con uno meno pericoloso: meglio il bisturi.

    lunedì 2 agosto 2010

    Mamma, mamma! Voglio fare ricerca in Italia!

    Voglio qua descrivere il percorso tipico di chi vuole fare ricerca in Italia.
    En passant, una panoramica del mondo universitario visto dal lato dello studente.

    (0) Premettiamo che il sistema scolastico italiano non fa alcuna selezione: buona parte dei diplomati di 18/19 anni che escono dalla scuola e si tuffano nell'Università sono semianalfabeti.
    Non lo dico io (io sono un signor nessuno), lo dicono le statistiche ed i giornali: 1, 2.
    Diciamo quindi che questi baldi giovani non sono stati sottoposti ancora a nessuna seria selezione, di alcun tipo.
    Tutti bravi, tutti eccellenti: peccato però che se sono tutti uguali, allora per definizione sono tutti "mediocri" nel senso letterale del termine.
    Se, inoltre, sono poveri (dalla regia mi dicono che devo dire "in famiglie a basso reddito"), lo stato garantisce loro pure una borsa di studio completamente slegata dai vostri meriti o demeriti scolastici.
    Prego accomodatersi, l'Università vi aspetta col tappeto rosso e lanci di petali di rose al vostro cammino!


    (1) I baldi giovani arrivano all'università e già qui si suddividono in base alla voglia di fare.
    Quelli che guardano più al futuro cercano di entrare a Ingegneria e Medicina: tanti provano, pochi ci riescono. Gli scarti che non riescono a passare il test di Medicina tipicamente si iscrivono ad altre facoltà di serie B tipo Biotecnologie o roba del genere, per sperare di passare il test l'anno dopo (cosa che non avviene).
    Quelli che già in partenza alzano bandiera bianca e dichiarano di non voler far niente si precipitano subito ad affollare facoltà senza sbocchi lavorativi come Lettere, Scienze Politiche e Psicologia.
    Ovviamente, ci sono quelli senza voglia di far niente che vanno a Medicina e ci sono ragazzi pieni di voglia di fare che fanno Scienze Politiche: ma diciamocelo, sono una netta minoranza entrambe le categorie.

    (2) Sostanzialmente, dopo 5-7 anni un 30% del totale degli studenti si ritira.
    A fare cosa non si sa, visto che a 23-25 anni con solo il diploma di scuola superiore si è già fuori dal mercato del lavoro.
    Il restante 70% arriverà a finire il percorso di studi (formalmente 3+2) in un lasso di tempo medio compreso tra 5 e 10 anni, con votazioni tra il 105 ed il 110&Lode.

    (3) Ovviamente, il fatto che passino tutti con voti alti significa che il merito vero non è premiato: tutti eccellenti vuol dire in realtà tutti mediocri.
    In questo modo, però, ciascuno si sente legittimato a voler intraprendere una carriera accademica: "guarda mamma, sono passato con 108 a Scienze delle Relazioni Internazionali del Katanga, è un voto alto, voglio dedicarmi alla ricerca accademica".
    Assistiamo qui ad un interessante fenomeno: l'assenza di selezione induce aspettative eccessiva in gente mediocre.

    (4) Qua però la cosa inizia a farsi problematica: per procedere nella catena dell'istruzione, serve un dottorato di ricerca.
    I dottorati di ricerca non sono dati in base a criteri meritocratici (come nulla in Italia), ma sono difficili da ottenere anche grazie a conoscenze, parentele e leccate perché sono oggettivamente pochi.
    Quindi qua il nostro baldo laureato o si accinge a leccare adeguatamente il suo docente di tesi sperando che gli sganci alla fine un posto di dottorato oppure prosegue la sua cosiddetta "formazione accademica" con un master a pagamento con annesso stàge da Auchan dove passerà sei mesi a scaricare casse in magazzino e poi gli daranno il benservito.

    (5) Lasciamo qua lo studente di master a "masterizzarsi" ad Auchan e proseguiamo col lecchino che riesce ad avere il suo dottorato di ricerca.
    Tipicamente tramite un concorso truccato in cui chi deve vincere sa già con settimane di anticipo le domande che gli faranno.
    Il dottorato consiste di tre anni durante i quali de facto non c'è alcun controllo su quello che fai e che puoi dedicare a quel che ti pare, stipendiato dallo stato a 1020 € netti il mese.
    Ora, in un posto civile 1020 € netti il mese per fare seriamente ricerca sarebbero una presa in giro: fanno circa 6 € l'ora assumendo una settimana di ricerca di 40 ore.
    Ma in Italia, dove non c'è controllo alcuno su quello che fai o non fai, significano 1020 € regalate per permettere al nostro baldo laureato di girarsi i pollici a casa o trovarsi un'altra attività più reminerativa.
    Ad esempio, buona parte dei dottorandi in materie letterarie in realtà insegna o dà ripetizioni, attività in teoria vietate per un dottorando che dovrebbe dedicarsi a tempo pieno alla ricerca.

    (6) Alla fine dei 3 anni il 99% degli studenti di dottorato prende il titolo indipendentemente da cosa ha fatto o non ha fatto.
    Il baldo PhD ancora non è stato selezionato se non per la sua devozione al prof.

    (7) Qui troviamo un ostacolo: per continuare nell'accademia serve una borsa post-Doc o un assegno di ricerca.
    Per entrambe le cose però niente paura, più che le capacità basta mettersi sotto l'ombrello del professore giusto, che ha finanziamenti tali da poter regalare una borsa anche a noi.

    (8) Trovare il prof. giusto non è facile, ma una volta fatto si può andare avanti di contrattino in contrattino con una produzione scientifica minima o inesistente.
    Ovviamente siamo pieni di dottorandi e post-Doc che si fanno un mazzo quadro e pubblicano molto, ma allo stesso modo c'è gente che in 3,4,9 anni avrà scritto giusto tre righe sul "gazzettino filosofico dell'Università di Monculi", ovviamente in italiano, che non legge nessuno.

    (9) Questo andare avanti di contratto in contratto può andare avanti virtualmente all'infinito, in generale termina verso i 40 anni.
    A questo punto, quelli che hanno avuto la resistenza sufficiente e sono un minimo utili per la ricerca di qualche professore abbastanza potente, riescono ad avere il posto come ricercatore a 1200 € netti il mese.
    Quegli altri, adieu!

    (10) Ciò vuol dire che un buon 90% di questi "long term survivor" ultra-quarantenni si trova d'improvviso senza stipendio/borsa e senza alcuna esperienza del mondo produttivo.
    Ovviamente, visto che in Italia il mondo produttivo ha in realtà scarsissima necessità di competenze tecnico-scientifiche avanzate.
    La selezione, mafiosa e nepotistica come da tradizione italiana, è finalmente giunta, ma troppo tardi ed ora a 40 e più anni uno ha esigenze costose e non più un reddito.
    Bello eh?


    Questo è il risultato di due mancanze tra loro strettamente legate: la mancanza di meritocrazia che si accompagna alla mancanza di selezione, se non alla fine, quando il danno è fatto.
    Infatti lo stato, la collettività e noi tutti spendiamo fior di quattrini per far studiare gente che, evidentemente, molto spesso non ha davvero nessuna intenzione di imprarae ed apprendere.
    Quelle mandrie di studenti di scuola e università, svogliati e stanchi che si trascinano da un esame all'altro sono sanguisughe che prosciugano i soldi che servirebbero a dare istruzione a chi davvero la desidera e la metterà a frutto.
    Ancora peggiore il dramma di quei post-Doc sbattuti fuori a 40 anni per ritardo di selezione: questo è proprio il colmo, molti di loro varrebbero pure, ma una selezione troppo a lungo rimandata fa saltare loro ogni possibile progetto di vita lavorativa.

    A questo siamo arrivati perché ci piace dire che tutti sono bravi, tutti sono intelligenti e tutti meritano di studiare.
    Se uno studente va male o è svogliato mica lo si boccia, no no, turberemmo il suo corretto sviluppo psicomentale: lo passiamo ugualmente alla classe dopo, perché sa, viene da una famiglia disagiata, bisogna essere comprensivi...
    Questo vero e proprio "sterco ideologico" ha contaminato tutto il sistema dell'istruzione, ed è chiaramente uno dei tanti frutti avvelenati del '68, con il suo mefitico giustificazionismo catto-comunista.
    Peccato però che il mondo del lavoro delle giustificazioni a buon mercato non se ne faccia niente: abbiamo creato una realtà "protetta" (la scuola, l'Università) ma là fuori il mondo si è fatto più cattivo e più si rimanda la selezione peggio è scontrarsi con la realtà. 
    Ma questo non lo vuole capire nessuno perché non fa comodo ad alcuno dirlo apertamente.

    Una volta c'erano contadini che recitavano Dante a memoria, ora è grasso che cola se un laureato l'ha mai sentito nominare.
    Ed allora tutti all'Università e oltre, riempiendoci la bocca di parole come "ricerca" e "sapere" che in un paese di laureati (mediamente) analfabeti sono solo parole morte e vuote.

    domenica 1 agosto 2010

    Due osservazioni brevi a sinistra

    1. Non è che Vendola all'improvviso sia un campione di "purezza" ed il PD sia il partito dell'inciucio.
      Banalmente, Vendola e suoi accoliti stanno fuori dal parlamento e non aspettano altro che il voto anticipato per sperare di poterci rientrare.
      Qualcuno, per cortesia, spieghi al Governatore con l'orecchino e l'erre moscia che senza una riforma della legge elettorale né lui né gli altri comunisti suoi amici rimettono piede in parlamento.
      Ed una riforma della legge elettorale è possibile, ma guarda po', solo da un ipotetico (e secondo me, improbabile) esecutivo di transizione.

    2. Lamentarsi se il governo non va alla commemorazione della strage di Bologna è un atto ipocrita, per un banale motivo: ogni volta che uno del PdL mette piede a quella commemorazione viene sommerso di fischi, insulti e sputi.
      Che siano i soliti "sinistri" dei centri sociali (gli stessi che tengono in ostaggio Bologna da 20 anni e l'hanno trasformata in una sentina a cielo aperto come la gemella Firenze), o i famigliari delle vittime, cambia poco: andare lì per farsi prendere a pesciate in faccia non piace a nessuno.

      Se io invito un ospite e poi gli sputo addosso non mi posso poi lamentare se la volta dopo mi dice che non può venire da me perché gli fa "contatto il gomito col ginocchio", eh...

    Cosa succede a destra?

    Il Presidente della Camera, on. Gianfranco Fini, da 16 anni porta avanti un suo personale percorso politico.
    In che direzione sta andando? Verso che cosa?
    Chi vede i suoi inizi nell'MSI ed il suo attuale (temporaneo) approdo in "Futuro e Libertà per l'Italia" non può che dire una cosa sola: si sta spostando a sinistra da 16 anni.

    Questo è senz'altro vero, è un semplice fatto: lungi dal dire che l'on. Fini sia "di sinistra", è innegabile che passare da un partito neo/post/ex-fascista come il vecchio MSI e finire in un movimento che parla di democrazia e diritti degli immigrati significa senza ombra di dubbio essersi spostati a sinistra.

    Il percorso dell'on. Fini è evidente, quindi: creare, a partire da una destra dal retaggio fascista e illiberale, una destra costituzionale come può essere quella di un Sarkozy in Francia o di una Merkel in Germania.

    Bene, se l'intento di per sé è lodevole, personalmente nutro delle perplessità sull'acume politico di chi dà la rotta.
    Per uscire dalle secche del neofascismo e fare di AN un partito di oltre il 10% Fini ha accettato la mano tesa di Berlusconi e non l'ha più mollata fino al 2007.
    Per ben 13 anni Fini ha sostanzialmente fatto da yes-man nei confronti dell'attuale Presidente del Consiglio dei Ministri; certo, Fini ha comandato in AN con pugno di ferro, ma nelle relazioni esterne con Berlusconi per 13 lunghi anni ha sempre detto sì.
    Ci sono stati degli screzi tra Berlusconi e Fini, già in passato, è vero: la crisi di governo nel lungo quinquennio 2001-2006 voluta congiuntamente da Fini e Casini, e l'allontanamento di Tremonti dal ministero dell'Economia. Piccole vittorie. Ma di breve durata, tant'è che Tremonti è di nuovo il ministro più importante dell'attuale esecutivo.
    Fini ha approfittato di Berlusconi, che lo ha sdoganato, ed in cambio non gli ha mai seriamente messo i bastoni tra le ruote fino al 2007.

    Alla fine del 2007, mentre la coalizione di sinistra-centro che regge il traballante governo Prodi II implode, Berlusconi se ne esce col cosiddetto "Popolo delle Libertà" e Fini capisce di essere nei guai.
    Con la legge elettorale allora (e tuttora) in vigore, far confluire AN nel PdL è quasi un obbligo per non sparire. Ma far confluire AN nel PdL vuol dire consegnarsi a Berlusconi come un prigioniero.
    Dopo iniziali titubanze, Fini ebbe ad accettare questo accordo, col risultato che oggi, quasi tre anni dopo, Fini scopre di non avere più un partito ma un "movimento" di una trentina di deputati e meno di dieci senatori.
    Capaci di far cadere il governo, può essere. Ma sono ben poca cosa rispetto a quel che un politico come Fini poteva pensare anche solo cinque anni fa.

    La triste realtà, per Fini e per tutti noi, è che il percorso politico di Fini è stato suo personale e di pochi suoi seguaci: non è stato condiviso dalle gerarchie di AN.
    Cose che capitano, quando si vuole costruire una destra democratica con i residui del neofascismo: quando si vuol costruire un palazzo, anche la qualità dei mattoni conta. E questo è proprio quel che è venuto a mancare: un partito (AN) che ha apprezzato il carisma personale del leader (Fini), ma che non ne ha condiviso il progetto e che quindi è stato disposto a passare armi e bagagli con un altro leader carismatico (Berlusconi).

    Quali strade in futuro possa percorrere l'on. Fini per creare una destra costituzionale in Italia sinceramente lo ignoro:
    1. se continua ad appoggiare il governo, la sua scissione sarà poco influente;
    2. se crea problemi all'esecutivo, Berlusconi può dimettersi ed ha i numeri (al Senato) per impedire la formazione di un nuovo esecutivo "tecnico", che vuol dire nuove elezioni anticipate: elezioni che Berlusconi è in grado di vincere ancora una volta e senza bisogno di Fini, Bocchino e Granata.
    Fini ha in realtà una pistola scarica in mano: magari fa paura, ma non può far del male, ed i numeri sia in Parlamento che nel Paese non sono dalla sua.

    La strada per avere una destra democratica in Italia è ancora lunga, con gran danno di tutti (di destra e di sinistra): ogni elezione in Italia si porta dietro toni da guerra civile, celebre il "non faremo prigionieri" di Cesare Previti, che si concretizzano in una oggettiva incapacità dei governi (più o meno stabili, di ogni colore politico) di affrontare davvero quelli che sono i problemi aperti ed irrisolti del Paese.

    Il bello è che è evidente quali siano: una istruzione che non istruisce, il lavoro che manca, una economia che ristagna, i servizi pubblici inefficienti.
    Sono parti dello stesso problema, che però ogni esecutivo lascia perdere.
    Reagan diceva che il debito USA era abbastanza grande da poter badare a sé stesso: di fatto ogni governo perlomeno dal 2000 ad oggi sta applicando la stessa logica alle falle sempre più numerose del "sistema Italia".

    Una persona da cui non si può prescindere

    Salve.

    Ho aperto questo blog perché qui voglio esporre le mie idee riguardo la politica, l'economia, l'istruzione ed il lavoro.
    Tutti temi che a parole si dicono sempre essere "centrali" (basta ascoltare un discorso a caso del Presidente della Repubblica per rendersene conto) ma che da anni sono de facto lasciati a sé stessi.
    Avrei piacere che questo diventasse un luogo di discussione corretta e pacata, senza anatemi verso alcuno, senza dogmi, senza offese: un blog che parte dai fatti e che ci ricama sopra opinioni motivate.

    In un blog italiano che vuole avere tra i suoi temi principali la politica, c'è un personaggio di cui generalmente non si può fare a meno di parlare.
    Questo personaggio è sotto i riflettori da 16 anni, ma l'inizio della sua iniziativa politica risale a molto tempo prima.
    Lo chiamano in molti modi, ultimamente "Papi" e "Cesare" sono stati i nomignoli che i media gli hanno attribuito più di frequente.
    Ovviamente è del tutto evidente di chi sto parlando.

    Bene, nei limiti del possibile, cercherò di trattare questo interessante personaggio della vita politica nazionale il meno possibile.
    Per almeno quattro buone ragioni:
    1. tutti gli italiani hanno una opinione di lui, nel bene o nel male, e difficilmente uno è disposto a cambiarla;
    2. è onestamente venuto a noia, tranne ai suoi fan più sfegatati;
    3. preferisco rimanere aderente alla realtà e parlare dei fatti e della interpretazione di tali fatti;
    4. ci sarà pur qualcosa di politico da dire che sia oltre lo schierarsi pro o contro costui, no?
    Ovviamente, nonostante questi buoni propositi, non si può prescindere del tutto da costui: il motivo è lapalissiano, lui è ancora qua tra noi ed è l'attore politico ed economico più importante del Paese.

    Pretendere di prescindere del tutto dalla sua persona è un po' come consigliare ai passeggeri di una nave che affonda di mantenere i piedi per terra: ok, in generale è un consiglio valido, non c'è dubbio, ma in quello specifico caso è di difficile applicazione.

    Questa lunga premessa è per dire che sì, occasionalmente dovrò parlare di lui, ma solo lo stretto necessario al discorso che intendo portare avanti.