domenica 24 ottobre 2010

Laureati? Non pervenuti

L'attacco concentrico all'università, sacrosanto, sta perdendo smalto grazie alla pronta reazione baronale e studentesca.
Non stupisce: questo governo, il più mediocre dei mediocri, difficilmente può tenere fede allo "spirito riformatore" ed alla "rivoluzione liberale" tanto a lungo promesse.

In un bell'editoriale sul Corriere della Sera di oggi (link) si illustrano le conseguenze ultime della riforma Gelmini, come del resto avevo già esposto nel mio post di 4 giorni fa (link): portare l'estinzione e la selezione naturale nelle casematte del clientelismo (dette anche "università").

Comunque, che la riforma vada in porto o no, la laurea comunque diventa un pezzo di carta sempre più inutile, al livello dei "rotoloni regina": non finiscono mai, e devi correre per agguantarli.

Perfino su Repubblica si stanno svegliando ed oggi leggo questo ispirato brano (link):
Ma quali sono le "arti" che offrono impiego e non lo trovano? Niente a che fare con l'alta tecnologia, con i segreti del web e con i mille "corsi di computer" che milioni di famiglie hanno pagato e fatto frequentare ai figli pur di riciclare il vecchio diploma o, ancor peggio, la fresca laurea.
Alle imprese italiane - piuttosto - servono installatori di infissi e serramenti: quest'anno, assicura la Confartigianato, le aziende erano pronte ad assumerne 1.500, ma nell'83,3 per cento dei casi non hanno trovati quello che cercavano. Stesso problema per i panettieri, i pastai, gelatai, pasticceri, tagliatori di pietre, marmisti, falegnami, cuochi, sarti, tessitori... insomma 68 mestieri (tanti ne elencano gli artigiani) dove il "saper fare" conta, ma non si trova. Dove il lavoro è fatica anche fisica e la manualità fondamentale. Posti che restano vacanti sia perché i candidati che si presentano sono pochi , sia perché quelli che ci provano non sono adatti.
Insomma, anche a sinistra stanno scoprendo che forse far laureare tutti nelle discipline più assurde forse non è un viatico per trovare lavoro.

Questa tendenza infame a creare corsi di laurea demenziali va di pari passo con la volontà dei giovani di non sporcarsi le mani e scegliere sempre la strada più facile.

Quando io dico che la società italiana è ingessata e che per i giovani si prospetta un futuro precario e di miseria, non intendo affatto dire che i giovani siano tutti bravi e che abbiano diritto a ciò che hanno avuto i nostri genitori.
Quel che intendo dire è che sui giovani si sono scaricate tutte le "colpe" del nostro mercato del lavoro e che il peso è tale da stroncare anche i più meritevoli.

Ovviamente, i più meritevoli sono solo uno sputo-percento del totale, e questo ce lo dice anche Repubblica: tutti sono convinti di avere le qualità per essere ambasciatori, poeti e letterati (altrimenti non si capisce perché tutti vadano a relazioni Internazionali, Scienze Politiche, Mediazione di Conflitti e così via).
Non hanno neppure quel briciolo di buonsenso da capire che è meglio essere un buon manovale con uno stipendio che un cattivo intellettuale a carico dei genitori.
La cosa bella è che prima o poi i soldi di mamma e papi finiranno.

Death penalty

Detto molto brutalmente: sono personalmente a favore della pena di morte.
Non certo per gusto per la vendetta, o per motivi religiosi. Non sono certo uno con la bava alla bocca che gode nel vedere morire una persona, per quanto colpevole di qualche reato.

Semplicemente, ritengoci siano degli atti che, se perpetrati, qualifichino come irredimibili al di là ogni possibile tentativo, e la pena di morte può essere una risposta più sana e umanitaria del carcere a vita.

Mi spiego meglio: lo stato, in ogni stato di diritto inclusa la nostra (malata) democrazia liberale, è l'unico detentore della violenza legale.
Ad esempio, lo stato ha il potere di prelevarci a casa all'improvviso e detenerci contro la nostra volontà in luoghi spregevoli come le nostre carceri, minimizzando i nostri contatti col mondo esterno: e può fare tutto questo legalmente, se sussistono le opportune condizioni prescritte dalla legge e dalla Costituzione.
Insomma, lo stato può disporre della nostra libertà personale.
La libertà personale, per quanto mi riguarda, è uno dei diritti essenziali del cittadino, forse il primo tra tutti in quanto attiene alla sua dignità come individuo (anche la "Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea", visionabile qui, mette la dignità umana al primo posto, anche prima del diritto alla vita stessa!). Una vita non libera è una vita indegna, è una vita segregata in cui normali attività (talmente tante e basiliari da far accapponare la pelle) sono impedite.

E lo stato può privarci di tutto questo legalmente, può strapparci dal sorriso dei nostri cari o impedirci di fare una normale passeggiata al sole: la legge dice che può.
Ora, capite bene che se lo stato può fare questo, non si vede ragione del perché lo stato non possa, in opportune condizioni, toglierci la vita.
L'idea che lo stato non possa uccidere legalmente perché non è dio si commenta da sola: è un punto di vista insulsamente cristiano, privo di una base razionale e mosso solo da principi di fede, fragili come il vetro ed irragionevoli come supporre che il figlio di un carpentiere possa moltiplicare pani e pesci.
L'idea che lo stato non possa uccidere legalmente perché non ha il diritto di toglierci ciò che non ci ha dato è parimenti assurdo: a parte che aprirebbe la porta (legale) all'uccisione dei figli da parte dei genitori, l'idea stessa che lo stato sia limitato da ciò che dà è incoerente. Lo stato è una manifestazione della tendenza umana a formare società di individui che in una qualche misura hanno interessi simili e che collaborano. Ed è solo la società umana a contemplare il diritto e la legge e pertanto è solo all'interno di una società che queste parole hanno un senso.

Quindi, in sintesi, la mia personale opinione è che si dovrebbe fare un largo uso della pena di morte per tutti quei casi di persone che sono solo un fardello ed una minaccia per la società e la sicurezza dei cittadini.
La prima cosa che viene in mente, ovviamente, è l'omicidio volontario, ma non si dovrebbe limitare la pena di morte solo a questi casi: io davvero non ho piacere a respirare la stessa aria di stupratori e papponi.
Li odio, li maledico e li detesto, ma non è che vorrei vendicarmi di loro: semplicemente sono disturbato all'idea che esistano e che possa condividere qualcosa con me. Io non voglio condividere nulla con loro, e avrei piacere che lo stato facesse in modo di disporre di loro per sempre in modo definitivo.

Dico questo perché il gran polverone sollevato in merito al caso Sakineh in Iran è stato come sempre male inquadrato dai media.
La cosa inaccettabile non è la pena di morte, come il solito associazionismo radical-chic blatera in televisione.
Molti paesi civili e democratici applicano la pena di morte, inclusi gli USA ed il Giappone. E molti altri la applicavano fino a poco fa: anche la Francia ha usato effettivamente la ghigliottina fino alla fine degli anni '70, e nessuno credo voglia affermare che la Francia negli anni '70 fosse un paese incivile e retrogrado.

Ciò che è un vulnus è che la pena di morte venga imposta in base a leggi religiose che si permettono di intrufolarsi nella vita sessuale dei cittadini senza una ragione valida di sicurezza pubblica [*].

Questa è la cosa che andrebbe ribadita, ma ovviamente i soliti terzomondisti d'accatto non lo possono ammettere, perché equivarrebbe a dire che la shria è incivile e che quindi non tutte le culture rispettano in modo uguale i diritti umani (cosa che il terzmondista, invece, si ripete da solo come un mantra).

Ancora una volta le ideologie dominanti offuscano i fatti e la ragione.


* Per capirsi, la violenza sui minori ad esempio è un motivo valido perché lo stato sanzioni certi comportamenti, in quanto altrimenti si lascia che un singolo faccia violenza su un minore.
Un rapporto adulterino tra due adulti consenzienti ovviamente non rappresenta un pericolo pubblico per nessuno.

L'imbarazzante silenzio dei sindacati

Anche i quotidiani di area catto-eco-comunista si stanno rendendo conto che i giovani precari di oggi (che saranno i vecchi di domani) non avranno pensione (link).
Nello specifico, se andiamo a vedere i numeri, si parla grosso modo di pensioni comprese tra i 5000 e gli 8000€ l'anno per gente che abbia lavorato 12 mesi l'anno (niente ferie ovviamente, un co.co.pro. non ne ha diritto) per almeno 40 anni [*]. Cioè meno di quello che è oggi la pensione sociale erogata a chi non ha mai mosso un dito in vita sua per lavorare.

Ed anche i quotidiani d'area non capiscono bene perché il sindacato, che non fa che sfilare e protestare e minacciare in difesa della classe operaia più fannullona del continente, taccia davanti a questa macelleria sociale che si sta delineando.

Che questi quotidiani (e tutta l'accozzaglia intellettuale che si trascinano dietro) non capiscano è evidente: la loro ideologia impedisce di vedere la semplice realtà dei fatti.
Noi che, si spera, non siamo affetti da nessuna fede o ideologia, possiamo invece dare una spiegazione molto razionale del fenomeno.
  • I sindacati hanno avallato tutto questo già ai tempi della riforma del lavoro di Treu.
    Il mercato del lavoro in quegli anni (1996-1998) era al collasso e le soluzioni erano due: o liberalizzarlo in qualche misura per tutti oppure garantire il posto fisso ai vecchi e scaricare tutti gli oneri sui giovani.
    "La seconda che hai detto" è stata la risposta del mitico trio CGIL-CISl-UIL.
    I sindacati hanno venduto il futuro (lavorativo) dei giovani per salvaguardare i privilegi dei vecchi.
Il perché di questa scelta è ovvio: i sindacati, come vado ripetendo da svariati post, non sono affatto i difensori "dei lavoratori". Assolutamente no.
I sindacati difendono i lavoratori iscritti al sindacato. E stop.
I sindacati amano ammantarsi di un'autorità che non hanno, ovverosia quella di rappresentare tutti coloro che "faticano", ma non è affatto così.
Quindi non ci dobbiamo stupire se essi hanno sottoscritto accordi per salvaguardare i propri iscritti svendendo il futuro dei giovani che, in quanto ai margini del mercato del lavoro, non sono iscritti.

Inoltre il precariato riguarda più di tutti i laureati, gente con un minimo di cultura in più della media (solo un minimo, eh, ma basta quello a fare la differenza) e che tendenzialmente non amma accontentarsi: tutta gente che in quanto più istruita e consapevole crea problemi a tutti, sindacati inclusi [**].

Certo, nel lungo periodo questa si rivelerà anche per i sindacati stessi una scelta miope: difendendo il passato a discapito del futuro hanno posto le basi per un crollo di iscrizioni.
Ma si tratta di un futuro remoto e la dirigenza sindacale, fatta per lo più da funzionari interessati a salvaguardare i propri interessi personali, non ha certo interesse nel futuro degli altri.

Ovviamente la sinistra catto-eco-comunista non ha nessuno strumento culturale per capacitarsi di questo, perché uno dei dogmi incrollabili della fede post '68 è che la CGIL è infallibile (un po' come il Vescovo di Roma per i cattolici).

Sicuramente questa sinistra radical-chic e con la erre moscia impiegherà svariati anni a dibattere ancora del problema nei suoi "salotti buoni", quando la soluzione più semplice e che spiega più cose (quindi, in base al rasoio di Occam, quella più aderente alla realtà) è chiaramente al di là della sua prospettiva culturale.

La speranza è che questa gente, se proprio vuole riempire le piazze, continui a non essere rappresentata a livello legislativo.



* Ovviamente supporre che un "precario a vita" riesca sempre a lavorare in modo continuativo per 35-40 anni è pura utopia. Vorrebbe dire che appena scade un contratto o un progetto immediatamente ne trova un altro, del tutto irrealistico visto che la disoccupazione giovanile è oltre il 25%.
Quindi le pensioni in realtà saranno ancora più basse.


** Non può sfuggire ormai la correlazione che c'è tra istruzione e bassa sindacalizzazione.
Del resto il sindacato da tempo trae forza da povertà, miseria e ignoranza, esattamente come la Chiesa Cattolica.

mercoledì 20 ottobre 2010

Extinction Approaching

La tanto vituperata "riforma Gelmini" non riesce a partire, grazie al ministro Tremonti.
Ma più che alla riorganizzazione dell'università, la vera cosa che conta è una ed una sola: il taglio del finanziamento statale agli atenei.
Ed era ora: gli effetti si stanno già preannunciando (link): una riduzione del numero delle università.
Siamo un paese di ignoranti patentati, ma con ben 88 atenei per 60 milioni di persone: fabbriche di laureati incolti e mediamente analfabeti (link) create al solo uso e consumo di baroni che fanno ricerca risibile.
Il migliore effetto della riforma consiste proprio in questo: tagliare, tagliare e tagliare.

E lasciare che, finiti i soldi a pioggia dello stato, la selezione naturale riprenda il suo naturale corso di premiare chi lavora bene e bastonare chi sta a grattarsi incassando lo stipendio.
Ci vorranno anni perché la situazione si assesti e si raggiunga un ragionevole equilibrio [*], ma non c'è fretta. Anche i dinosauri non si sono estinti in due giorni.



* Ovviamente, prima di arrivare ad un equilibrio del sistema, accadranno ingiustizie a manetta, tipo gente brava che viene castigata senza motivo e così via. Che dire, è inevitabile, come in tutti i processi di massa.

sabato 16 ottobre 2010

I lavoratori si dividono in due categorie: i lavoratori e i non-lavoratori

La manifestazione sindacale di oggi ha del grottesco (link).
Per una volta mi trovo d'accordo con le parole di un ministro del governo Berlusconi:
Oggi è scesa in campo una minoranza, speriamo che resti tale.
Ecco, io lo spero davvero.
Non mi permetto di giudicare i singoli che hanno ritenuto di partecipare a questa iniziativa.
Mi permetto però di dire la mia su cosa ci sta dietro a tutto questo: una non accettazione della realtà.
Questa non accettazione passa da almeno due stadi, ben interconnessi tra di loro: li passo brevemente in rassegna.

1) La critica più forte che si è levata dai sindacati e dalla "sinistra estrema" (a me piace chiamarla "sinistra smodata", perché dà più l'idea di un gesticolare frenetico sotto gli effetti di stupefacenti) è rivolta al cosiddetto "Modello Marchionne" ed alla "dittatura del libero mercato".
Peccato che il "Marchionnismo" non è altro che chiedere che i lavoratori facciano quello che li definisce: lavorare, e non inventarsi centomila scuse per assentarsi e mandare in malora le fabbriche.
Marchionne chiede una cosa molto semplice: vuole che siano prodotte x auto nel tempo y, perché all'azienda servono visto che le attuali previsioni sull'andamento dei mercati suggeriscono che solo le aziende capaci di immettere grandi quantità di auto potranno sopravvivere alla crisi.
Quel che chiede Marchionne ovviamente è del tutto giusto e sarebbe lecito chiederlo in ogni circostanza ("prendete uno stipendio per lavorare, non per darvi malati quando gioca l'Italia"), ma a maggior ragione adesso che la sopravvivenza stessa dall'industria italiana è a rischio.
Ovviamente queste parole di buon senso sono state salutate da parte dei sindacati con la solita bordata di insulti: tra Landini e gli altri suoi compagni di merende sono arrivati a dire di tutto, compreso che Marchionne "attenta ai diritti costituzionali" [*]. A quali diritti costituzionali facciano riferimento questi signori non è dato saperlo, probabilmente anche la "sinistra smodata" ha deciso di dotarsi di una costituzione materiale sua propria (non diversamente da quel che sostengono Ghedini e Berlusconi [**]) il cui articolo unico recita: "Tutti sono automaticamente lavoratori ed hanno diritto a percepire un regolare stipendio qualunque cosa facciano o non facciano".
Con questi figuri è del tutto impossibile imbastire alcun dialogo: bene fa Marchionne ad andare avanti senza di loro, che proseguano il loro sterile monologo nelle piazze.
Resta il fatto che questa gente può avere un seguito: a seconda di quanto è esteso tale consenso il destino industriale del nostro paese può portarci verso il baratro del terzo mondo o meno. In ogni caso sappiano che a Marchionne non ci vuole niente a smobilitare tutto, licenziare a manetta e spostare la produzione in posti dove la gente ha voglia di sgobbare sul serio, tipo Polonia e Romania.


2) La gente scesa in piazza grida esasperata: "non c'è lavoro, è inaccettabile".
Be' signori, benvenuti nel XXI secolo dalla parte di chi non cresce più dell'1% l'anno.
Credevamo davvero che quei numeri che l'ISTAT ci dice alla Tv fossero solo sciocchezze? Be', ecco il risultato: l'Italia sta diventando un paese sempre più povero.
E questo non è né inaccettabile né stupefacente: minacciare lo sciopero generale come ha fatto irresponsabilmente Epifani non significa altro che impoverire l'Italia ancora di più, far chiudere più aziende, minare la nostra crescita economica.
Crescita economica che è risibile da decenni a causa di un semplice problema: in Italia la selezione del libero mercato non ha operato per decenni, ed l'assenza di questa ha fatto sì che imprese fallimentari siano rimaste in piedi in modo artificioso (con aiuti di stato, salvataggi pubblici, prestiti irragionevoli in condizioni di insolvibilità) soffocando quel che di buono poteva nascere.
Per anni il sistema ha retto, per il solito motivo cui accennavo prima in precedenti post (link): l'Italia era un paese di una certa importanza, avevamo la cortina di ferro al confine e il mercato stesso si limitava all'Occidente.
Insomma, in una qualche misura (in quanto parte del'Oiccdente) eravamo arbitri e giocatori al tempo stesso, mentre il resto del mondo faceva la fame noi parlavamo di Dior e delle sfilate di Valentino come se fossero cose delle massima importanza.
Ora, se vogliamo, possiamo pure continuare a far finta di essere ancora ricchi e discutere amabilmente di fuffa allo stato puro (come del resto fanno i nostri mezzi di informazione: descrivono un'Italia che sembra ancora benestante), ma nel frattempo il mercato si è allargato a miliardi di altre persone, la guerra fredda è finita da un pezzo e con essa la nostra importanza strategica: scopriamo così che i nuovi protagonisti della globalizzazione (in primis Cina, India, Brasile, Corea del Sud, ma a breve anche Indonesia, Messico, Turchia, Vietnam e Russia) non sono affatto disposti a giocare contro di noi con noi come arbitro.
La globalizzazione ha portato il ventro fresco del libero mercato anche nel Vecchio Continente, che si scopre sempre più marginale ed impotente. E, tra tutte le nazioni del Vecchio Continente, la più impreparata ad affrontare le sfide del futuro è proprio l'Italia.
I manifestanti dicono che questo è "inaccettabile". Ma inaccettabile che? E' un fatto che l'Italia stia declinando, potete pure battere la scarpa sul tavolo come Kruscev e mettervi a piangere, ma non cambierete la realtà dei fatti.
Al contrario, i fatti vanno "accettati" il prima possibile perché solo prendendone atto si può tentare di mettere in atto delle contromisure efficaci (più mercato, più competizione, meno privilegi).
Ma chiaramente non è questo ciò che interessa la sinistra estrema: loro vogliono giocare con le regole vecchie, mentre il mondo è già passato a regole nuove, e non si capacitano di come mai questa volta le cose non stiano andando come vogliono loro.
Ma poi, perché sarebbe "inaccettabile" che l'Italia vada a picco mentre per decenni ci è parso normale che messicani e brasiliani (tanto per fare due esempi) fossero poveri straccioni morti di fame? Non notate il fondamentale razzismo di tutto questo? Il non voler accettare per noi quel che in altri momenti storici è valso per gli altri? E poi l'egocentrisimo di questa affermazione: il mondo globalizzato se ne frega se l'Italia, penisola minuscola di 60 milioni di pezzenti, ha dei problemi economici.
Il mondo là fuori può benissimo fare a meno di noi: siamo noi che ormai (come mercato) non bastiamo più a noi stessi e quindi siamo noi ad avere bisogno del resto del mondo. E no, esportare pizza, mafia e mandolino (i nostri tre principali prodotti da esportazione, se continua questo andazzo) non sarà la soluzione ai nostri problemi.


Insomma, la "gente" si lamenta di non avere un futuro. Lo capisco bene, neanche io ho un futuro.
Ma non pretendo che sia un diritto averlo: il futuro ce lo si deve costruire (anche in USA è un diritto la ricerca della felicità, non la felicità in sé!), se i nostri genitori ci hanno illuso che il futuro fosse gratis, be', si sbagliavano e di grosso anche. Alla fine qualcuno paga sempre [***].

Oggi, va detto, sono scesi in piazza non solo i privilegiati (quelli col posto fisso), ma anche i precari che aspirano al posto fisso.
Ma concettualmente non fa differenza: non esiste alcuna differenza tra forma mentis di un privilegiato e quella di un paria che aspira ad essere privilegiato.
Il salto di qualità sarebbe aspirare ad una posizione consona ai propri meriti (se ci sono), mentre qua la gente sembra pretendere una posizione consona ai propri bisogni. Non è la stessa cosa.

La polemica di questi giorni su scuola ed università del resto è da manuale: precari che vogliono essere assunti in quanto precari, anche se in realtà di loro non c'è alcun bisogno. Gente che ha confuso il servizio pubblico con un erogatore automatico di stipendi a pioggia.
Una seria riforma del "sistema Italia" (se mai verrà tentata) non potrà che passare da una riforma prioritaria del pubblico impiego, introducendo la possibilità effettiva di licenziare chi non lavora (e sono tanti).


Ennio Flaiano disse una volta che "i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti".
Allo stesso modo, oggi bisognerebbe dire che i lavoratori si dividono in due categorie: i lavoratori e i non-lavoratori.

Chi è sceso in piazza oggi, in buona fede o meno, ha difeso gli interessi di chi si approfitta delle carenze del sistema per prendere uno stipendio senza lavorare, gravando così sui pochi che si fanno carico delle mancanze di tutti.

Complimenti.



* Dimenticando, come al solito, che semmai sono i sindacati stessi a violare la Carta (art. 39) non accettando di farsi registrare. Il che ha ovvi motivi: per registrarsi dovrebbero dotarsi di statuti democratici (incompatibili con la mentalità "io copro te e tu copri me" che serpeggia in CGIL) e contarsi al proprio interno, mostrando così a tutti che i numeri immani sbandierati non hanno alcun fondamento.

** Ad ennesima conferma che tra la nostra "destra" mignottara e la nostra sinistra ultra-sindacalizzata le differenze sono minime. 
Non è un caso che oggi i primi avversari del berlusconismo siano Fini e Marcegaglia (entrambi vittime dei linciaggi mediatici dei quotidiani del Presidente del Consiglio), persone che di certo non provengono dall'area del sindacalismo o della sinustra militante.

*** Nel caso dei baby boomers, il conto del loro futuro lo ha pagato quella parte del mondo tenuta fuori dal mercato globale e lo pagano i giovani di oggi su cui si scaricano tutte le voragini nel bilancio del welfare state.

lunedì 11 ottobre 2010

Anche il tempismo conta...

... e il solito Silvio Berlusconi decisamente non ce l'ha.

Appena il tempo di accogliere il premier cinese Wen Jiabao e tessere le lodi dell'autoritarismo cinese, che in manco 24 ore il comitato per il Nobel in Norvegia assegna il premio per la pace ad un dissidente che sta pagando col carcere la sua opposizione alla dittatura.

Ora, la questione è semplice: il prodotto interno lordo della Cina questa estate ha superato quello del Giappone, e il paese sembra avviato a scalzare gli USA dal ruolo di potenza dominante.

Ciò detto, l'Italia in quanto (imperfetta) democrazia liberale non può permettersi di tessere le lodi di un establishment politico che non rispetta né il diritto né la democrazia.
Se lo si fa, si dà una sponda ideologica alle più spregevoli dittature.

Capisco che non sia da tutti avere le palle di criticare apertamente la Cina, va bene.
E nessuno chiede ad un codardo nato come il nostro Presidente del Consiglio un atto del genere, non sarebbe in linea con la sua biografia umana e politica. Lasciamo pure alla commissione per il Nobel l'onere di questi gesti coraggiosi.
Ma almeno il silenzio, dio benedetto, almeno quello sarebbe dovuto.

domenica 10 ottobre 2010

Affamare la bestia

Chiarito che l'università italiana mediamente non prepara a nulla ed è solo un esamificio ad uso e consumo dei baroni, ben vengano i tagli.

Anzi, quelli della Gelmini non sono abbastanza: l'università italiana va affamata, al punto che possano sopravvivere solo quei gruppi di ricerca con le palle che sanno intercettare fondi non statali (dai privati, o dai bandi di ricerca europei o di altri enti).
Solo così si può sperare, tra una ventina d'anni, che all'università ci sia davvero gente seria e competente: la selezione verrà fatta dal necessario pensionamento di tutte le mandrie sessantottine di assunti e dalla morte per inedia di quei gruppi di ricerca che non fanno niente.

Chiaramente l'intero establishment si sta mobilitando contro tutto questo:
  1. i baroni non vogliono perdere il loro potere o essere valutati per la ricerca che davvero producono; 
  2. i ricercatori temono la fine delle loro possibilità di carriera, che sono legate a quanto sono servili nei confronti dei suddetti baroni; 
  3. gli studenti seguono come un gregge, timorosi che una università selettiva e non più di massa possa mettere fine alla bella vita dello studente fannullone e bamboccione.